Non sembravi
neanche più davvero un uccello. Nella tua gabbia appesa
a un chiodo, fermo, così nascosto sotto al muro che di
sera si doveva prendere una lampada per accorgersi di te, dietro
la bicicletta, la scatola degli attrezzi, il terreno per le
piante, sotto la tettoia del balcone, la gabbia sembrava vuota.
Accesa la pila, ho visto che c'eri. Biondo, pulito, un leggero
riflesso chiaro sulla punta delle tue ali.
- Non l'ho mai sentito cantare, nemmeno cinguettare, solo frignare.
Francesco ti tiene da un anno, sei l'ultimo; ha dato via tutti
gli uccelli in gabbia, si tiene solo il pappagallo, che neanche
parla.
I tuoi occhi neri guardavano sempre più avanti di chi
ti guardava. Ti sbattevi più che volare, da una sbarra
all'altra ti abbattevi sulle sbarre della gabbia come sulle
corde di un ring. Non era per volare il tuo breve salto, sotto
lo sguardo di chi ti chiedeva: mostrati, mostrati vivo. Tra
le due asticelle messe lì apposta perché tu saltassi,
destra, sinistra, avanti, indietro, giusto il tempo di sbattere
le ali un secondo, il tuo spazio. Come chiedere a un canarino
così di cantare?
Ti ho chiamato Venticinque, quando ti ho portato via, perché
era il giorno della Liberazione e io dovevo stare a Milano e
invece per un pelo lieve come il caso mi trovavo a Napoli.
Non l'ho visto il corteo a Milano, sono venuta via un giorno
prima, e chissà che non sia tornata a Napoli solo per
mettere una mano sulla testa del nonno, che ha vissuto così
tanto eppure adesso muore, o per venire a prendere te, un neonato
che non è mai esistito, da un anno in gabbia.
Sono venuta via prima del Venticinque, ma ho detto a chiunque
incontrassi a Milano: "Vai, adesso è importante
che facciamo vedere che ci siamo. Vai, adesso è quanto
mai importante esserci". La mia amica Terry è andata.
La prima cosa che ho chiesto a Terry è stata: dimmi quanti,
quanti ne eravate.
Terry ha detto che erano tanti, ma tutti in fila, dentro un
silenzio sospeso, come se qualcosa fosse accaduto dietro le
quinte, un evento pronto a mostrarsi in pubblico.
- E voi?
- Noi cercavamo di sapere: si governa?
- Hanno ancora paura di Berlusconi?
- Che silenzio teso che c'era.
- Nessuno ha il coraggio di dire: ho paura?
- Lo sai del popolo della sinistra chi è rimasto!
- Chi?
- Solo vecchi e bambini.
- Nessun giovane?
- O sapevano già tutto o non sapevano niente: solo vecchi
e bambini.
- La nostra generazione. È mancata.
- Io ho seguito, ho militato. Fino a Tangentopoli.
- E poi?
- Quando ho messo il naso fuori, ho visto sfilare solo soldi,
soldi, altro che idee. Siamo state all'ombra per tanto tempo,
ma adesso si può!
- Si può, cosa?
- Urlare, io non ci credo.
- Perché?
- Per non sentirci cretini.
Il telegiornale è finito e non ho fatto in tempo ad ascoltare
notizie ufficiali. Così ho solo il punto di vista di
Terry. Dice che è stato un corteo ordinato, senza carica.
Come la comicità milanese, le ho detto. Ho pensato a
Massimo Troisi, poi sono venuta a prenderti.
Francesco ha iniziato con un pappagallo; mentre ancora portava
i capelli a spazzola, il Vesuvio cominciava a farsi vedere pure
di notte, per via delle case, che continuavano a costruire.
Teneva la finestra aperta anche di notte, per monitorare la
nascita dei paesi vesuviani. Era solo un ragazzino, ma si divertiva
a sentirsi importante, come Montanelli o come Celentano. È
stato allora che un pappagallo prese a volargli in camera e
Francesco fece una gabbia per lui, senza porta. Veniva e volava,
come gli pareva. E' morto di vecchiaia, come mio nonno.
Con te che sei nato in gabbia Francesco non sapeva che fare.
Gli altri li ha dati tutti e tu sei rimasto solo in una gabbia
troppo grande.
Mi ha limato e pulito una gabbia più piccola, ha tagliato
una tavoletta di compensato per farne la base, ha coperto una
fessura con un cartoncino inchiodato. Ha messo due cilindretti
per l'acqua e due vaschette per i semini. Mi ha dato anche una
minuscola ciotola di plastica dove farti fare il bagno. La carta
di giornale da cambiare ogni giorno per non pulire ogni volta
la base della tua cacca. Mi da dato semini per un mese.
Mi ha detto che mi avresti portato fortuna. Che la sciagura
invece era certa se tu fossi morto.
Che potevo farti vivere o lasciarti morire. Solo, non potevo
lasciarti la porticina sollevabile della gabbia aperta, a meno
che non avessi chiuso tutte le finestre di casa.
- È la prima volta che esce. Hi hi hi. Vedi come guarda
avanti.
- Come lo chiamo? Aprile!
- Aspetta il primo suono che fa e poi gli scegli il nome.
- Venticinque Aprile, la liberazione!
- E vada per Venticinque, quando canta si chiamerà Aprile.
- Hi hi. Nome e cognome.
- Aprile è il nome.
Mentre salivo le scale del vicolo con te mi sentivo più
forte, come chi ha un cane al guinzaglio.
- Guarda, il tuo nuovo mondo, guarda quanti giardini in questo
vicolo, e quanto silenzio che il più piccolo cinguettio
è udito. Di qui senti quanto è dolce il gioco
di chi è insieme. Sei in compagnia anche se ti metti
a guardare. I colombi non beccano i corvi e i corvi non beccano
i passeri. I cani e i gatti sono addestrati a tener via solo
i topi. Vedi quanti giardini, qui i numeri civici sono venuti
dopo, prima sono arrivate le ville.
- Si lo so che qui più si sale e più si ha paura,
ma faccio in fretta, ti faccio vedere cosa c'è sopra,
ecco, vedi qui dalla curva delle scale si vede il panorama.
Belle le luci? Non impaurirti, è solo una sirena, solo
un botto, fuochi artificiali, adesso finiscono, va bene, svolto,
ti porto a casa. Tranquillo adesso? Vedi che qui tutto passa?
Il silenzio è protetto dai doppi infissi.
Ti ho messo sul davanzale dietro il vetro della finestra, perché
di lì potessi vedere fuori; ho messo su l'Orchestra di
Piazza Vittorio, perché la musica ti facesse sognare,
ma tu guardavi dentro: il manifesto di Charlot, l'armadio, il
letto, la radio sulla mensola. Cercavi di capire da dove venisse
la musica? Ti ho immaginato volare per casa e non ho visto alcun
senso. Ti ho guardato a lungo, senza decidere nulla. Ho rimandato
tutto a domani.
Domani guardavi fuori. Non facevi altro che guardare fuori e
saltavi: era solo voglia di volare. Alzavi le ali, ti scuotevi
dai brividi e allungavi il collo tanto da sembrare una papera.
Ho guardato fuori anche io e ho visto quanti frutti ci sono
per te. Pioveva, poco. Quando piove gli uccelli si chiamano
per il rientro.
Quanto eri piccolo sul davanzale di marmo. Il tuo volo era una
salita che a ogni passo sbatteva sul vetro. Lo hai beccato il
vetro.
Volevi uscire? Mi sono avvicinata perché volevo aprirti
la finestra e tu sei scappato in gabbia. Non volevo prenderti.
Guardavi dappertutto, a scatti.
Ho aperto la finestra; ho messo su Vasco Rossi. Sei tornato
fuori presto, sapevo che lo avresti fatto e non mi è
importato molto di urlare Bravo fino a sentirmi cretina.
Francesco ha detto che non dovevo lasciarti uscire che saresti
andato lontano senza saper più tornare, che non ti avrei
rivisto più.
"E allora?" Gli ho detto.
Dice che se non morirai qualcuno ti rimetterà in gabbia.
Gli ho detto che avrei lasciato decidere te. E l'hai fatto.
Quanto erano imponenti le tue zampe sottili sugli stipiti della
finestra e quanto astuto il tuo collo che si allungava per guardare
a sinistra, dove sale il vicolo. Sei saltato fuori con un balzo
e credimi lo faccio di raro, applaudire da sola, e dire bravo,
a voce alta. Mi sono allungata anche io senza pensare di rivederti,
invece eri appollaiato sui fili dei panni, dondolavi. Sembravi
un foto montaggio, mi hai ricordato quella foto degli immigrati
italiani sospesi a guardare l'america nella pausa pranzo. Sotto
di te è passato un bambino e un cane. Il cane ti ha visto,
ma con un solo sguardo distratto, come una cosa consueta per
lui. Non si è dato da fare per azzannarti. Il bambino,
invece, ti ha notato, e ha alzato la testa. Una signora che
già possedeva due canarini in gabbia ti ha visto e ha
urlato:
- Guagliò, lo vedi quel canarino? Lo sai acchiappare?
Portalo qua.
- È libero! - Ho detto io, ma nessuno mi ha sentito per
niente.
Il bambino è venuto a prenderti, ma non credeva ai suoi
occhi, e la sua mazza di cartone ti stuzzicava mentre tu cercavi
un buco nel muro, un riparo, e quando l'hai trovato, un vecchietto
che passava di lì, ha detto al bambino, lascialo andare,
e le tue ali, allora, fiere come quelle di un pavone, si sono
alzate, per sollevarti, sopra il grido di rammarico disperato
della vicina: "È andato!" Sei volato in alto,
fin sopra il muro di cinta del giardino, hai visto gli alberi
di limone, di arancio, hai sentito dei cinguettii e ti sei infilato.
Ho fatto in tempo a vedere il ramo su cui ti sei poggiato.
Una minuta vecchietta è uscita nel suo giardino, sotto
i suoi alberi, con la sua pelle rigata, gli anni trascorsi e
uno straccio in mano. Ha guardato intorno e poi è rientrata.
Sei al sicuro.
Ha piovuto, molto. Ho visto un uccellino biondo spiccare il
volo come un razzo, verso l'orto botanico. Eri tu?
Il cielo è viola e non so dove sei, spero tu abbia trovato
rifugio, nel luogo più giusto.
Spero che amici di specie diverse ti aiuteranno. Ho visto un
piccolo merlo appollaiato sul filo della luce; gonfia la pancia
per poi stendersi e rilassarsi, come facevi tu.
Quanto a me, non mi andava di giocare a dadi con la tua vita,
sarà per questo che ti ho liberato.
Francesco ha detto: "Addio Aprile!" come fosse una
rassegna di dimissioni.
Io te lo dico come si fa a chi va lontano: addio Aprile, spero
che tu abbia fortuna, che le leggi del tuo universo non siano
le stesse di quelle di noi, umani. Addio Aprile.
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