Vico
Paradisiello. Lo hanno chiamato così perché prima
della guerra ci si veniva a farsi le vacanze, perché le
case ci salgono sopra come se fosse una gita, sono basse, le case,
tre piani al massimo. Le mura striate di rosso pompeiano, i portoni
che socchiudono giardini e spiazzi, ricordano le gite domenicali
in un paesello di campagna. Hanno continuato a chiamarlo così
perché durante la guerra i tunnel scavati dagli acquedotti
nella città di sotto sono diventati rifugi, sotterranei,
vico Paradisiello si è fatto rifugio anche lui, ma in alto.
Ncopp' o paradisiello. E' così che dicono.
Il pallone scende lungo i gradoni bassi, larghi, un bambino lo
rincorre e non vuole che nessuno lo fermi, è il suo gioco,
rincorrere la palla lungo i gradoni bassi e lunghi di vico Paradisiello.
E' un gioco che le macchine non intralciano che le signore affacciate
ai balconi sorridono che le madri chiamano che le canottiere di
cotone vestono, è un gioco che le scale che scendono a
curva abbracciano. Il gioco dell'infanzia.
Vico Paradisiello è un braccio curvo a passo di danza.
All'altezza del suo gomito c'è un muretto basso come un
davanzale, ci si può affacciare sulla città: l'albergo
dei poveri. A guardarlo dalla strada, l'albergo dei poveri, attraverso
le sue finestre senza vetri né infissi, si può vedere
il cielo, dalla strada. Vico Paradisiello l'albergo dei poveri
lo guarda di spalle, lì dove i lavori di recupero non sono
ancora iniziati, lì dove le mura si raccontano, nude. Quando
salivo la curva di scale, i primi giorni della mia vita qui, guardavo
il panorama di mura diroccate e case arroccate, grattacieli e
ascensori che poderosi si lasciano risucchiare in alto, e il Vesuvio,
che invece delle pendici ha luci di case strade e città
a ridosso sul mare.
Adesso non guardo più in basso, verso Napoli. Guardo in
alto, lungo gli ultimi scalini del vicolo, guardo scala per scala
per terra, dove arbusti di erba selvatica crescono indisturbati,
fino alle punte di abeti che stanno oltre il cancello, nel giardino
che è l'ultima casa prima della fine. La mia casa è
benedetta dall'erba selvatica. Un ciuffo di peli verdi sale quasi
fin sopra al mio balcone, al primo piano.
A Vico Paradisiello nelle sere fresche di estate un gruppo di
ragazzi si siede, sulle ultime scale prima della curva, stanno
seduti a fare compagnia alla luna quando lei rossa si nasconde
dietro al Vesuvio. I ragazzi parlano a bassa voce. Stretti, vicini,
si raccontano di approcci maldestri baci mancati e ragazze di
spalle, si raccontano dove è andata la palla quando ha
mancato un goal e cosa ha detto la folla dentro la ola dei desideri
quando la palla ha fatto centro, rete. I ragazzi parlano sottovoce,
come se fossero nella stanza dei bottoni buoni, che vanno premuti
con attenzione, rispetto. Io salgo le scale come una mano che
carezzi un braccio, lenta. I ragazzi non si voltano, solo uno,
si volta, mi guarda fisso, ha gli occhi verdi, non battono neanche
una ciglia quando io passo, ha il viso paffuto di un orsacchiotto,
a volte lo vedo aspettare gli amici con la borsa in spalla, va
al calcetto, è sempre lui ad aspettare gli altri, li tira
giù dalle case nel vicolo senza nemmeno chiamarli, li tira
come una mascotte che riunisca la sua squadra, gli altri arrivano
sempre, è un appuntamento, subito braccia in spalle scendono,
lui è contento, sempre al centro e un po' da parte, è
il più piccolo, deve essere il capitano della squadra,
un capitano scelto per affetto, non ha la faccia del duro, ma
adesso mi guarda fisso, duro, come se avessimo un conto in sospeso,
noi due, e lo abbiamo entrambi da quando lui mi ha segato il manubrio
del motorino, e da quando io fatto la spia con suo padre; è
come se lui solo sapesse chi sono, e me lo dice con lo sguardo,
poi mi fa spazio anche lui. Entro a un passo dal loro mondo e
vorrei dirlo, al ragazzo che mi guarda, che sono solo una che
passa, che vorrei stare con loro anch'io, ma sono grande, un'adulta,
e devo solo passare, andare a casa. Quando passo tra loro il conciliabolo
si ferma, mi sento la macchina che interrompe il tiro di palla
dei bimbi, in strada. Non sono come loro. Sono qui da pochi anni
e non basterebbe una vita a imparare il respiro che fanno le voci
quando si parlano senza fiatare, a Vico Paradisiello. Non sono
nata qui, eppure sento che il vicolo con le sue voci mi abbraccia.
Vico Paradisiello non ha mai conosciuto violenza, fino a stasera.
Perché pure la guerra era un' eco lontana , a Vico Paradisiello,
perché i rumori di bombe venivano dal basso, a Napoli,
e la gente che si rifugiava dentro la città di sotto sentiva
la deflagrazione come se fosse un parto involuto, nato dal ventre
di una città che non conosce l'aborto, Vico Paradisiello
invece era ancora in vacanza, anche quando c'era la guerra.
Stasera c'è un gruppo di gente in piedi vicino a un portone,
guardano verso il basso, giù al vicolo. E' la prima volta.
Nessuno lo fa mai, a Vico Paradisiello, guardare l'imbocco del
vicolo giù in basso.
All'imbocco del vicolo penso che è me, che guardano. Salgo.
A ritroso lungo la traiettoria degli sguardi. Sono a un passo
da loro. Solo donne, e una bambina. Continuano a guardare giù.
Aspettano qualcuno. Aspettano con le pupille dilatate. Mi fermo
accanto a loro e chiedo che è successo. Non lo faccio mai,
chiedere cosa è successo, anche se ci sarebbe di che farlo,
a Napoli. C'è sempre un crocicchio che guarda un incidente,
un ladro che scappa, una vecchietta in terra, le vetrine di un
negozio infrante. E io non chiedo mai che è successo, anche
se ci sarebbe di che farlo. Ma adesso se non lo chiedo non posso
muovermi da questa paralisi in cui mi sono imbucata anch'io, accanto
alle pupille dilatate delle donne e la bocca un poco aperta della
bambina. Che è successo? Chiedo. Le donne non rispondono
e continuano a guardare giù. La bambina è un po'
grassottella, mi guarda e mi dice, è morto. Le labbra le
tremano mentre lo dice e io vorrei sapere chi, è morto,
ma la bambina invece vuole sapere perché, ha due occhi
grandi e celesti che mi guardano e io la risposta non ce l'ho,
quindi faccio altre domande e la bambina risponde, ma lo fa col
tono come se volesse fare una domanda, così le domande
ce le facciamo insieme, anche se in apparenza io chiedo e lei
risponde. Come? Ucciso. Qui? No, fuori. Giù al vicolo?
No, sulla spiaggia. A Mergellina? A Bagnoli. Chi è stato?
Quelli là fuori. Chi? Un coltello. Un ragazzo? Qui, nella
pancia. Chi era? Dico.
Una donna smette di guardare giù e mi dice Francè,
la vuoi finire? Pare che stai facendo un interrogatorio, come
dove, chi. E' morto un ragazzo, accoltellato, teneva vent'anni
teneva. E' tutto. Vent'anni teneva, e io mi vergogno delle mie
domande che non sanno trovare una risposta e dico ho chiesto solo
perché sono di qui anch'io, solo per questo, ho chiesto.
La donna ha i capelli corti e una voce grave, da uomo, l'ho sempre
salutata quando la vedo passare, come faccio con tutti, senza
mai sapere il nome, non so il nome di nessuno io qui, e mi stupisco
che lei, invece, il mio nome lo sa. Il mio nome lo sanno tutti,
qui, dicono che sono una ragazza tranquilla, che non si vede e
non si sente, ma il mio nome lo sanno. La donna adesso sta zitta,
non mi aggredisce più, perché è la prima
volta che dico sono di qui anch'io.
Saluto la bambina e il ciao mi esce come un rantolo. Qualcuno
piange dietro di me. E' un'altra bambina, piccola, ha la pelle
chiara, i capelli neri corvino. Esce dal portone insieme a una
folla di uomini. Non li avevo mai visti gli uomini, a Vico Paradisiello
si vedono sempre solo le donne, e i bambini. Neanche lei l'avevo
mai vista, una bambina bella così. Delicata. Ma il suo
pianto è già troppo adulto, accasciato. La portano
a braccio. Scendono. Io salgo.
Non dormo. Cerco su internet un'edizione straordinaria. Ma non
c'è niente di straordinario. Il mattino arriva ma la notte
non passa.
Esco, chiudo la porta, scendo, chiudo il portone, non sono mai
fuori. Scendo le scale.
La folla vicino al portone è ancora lì, calda, due
giornalisti stanno impalati, in disparte. Scendo e un ragazzo
con i capelli a spazzola e una riga bionda mi piange a fianco.
Un urlo accasciato. Passo in mezzo. Il resto è silenzio.
Ovatta.
Cerco un giornalaio che sia lontano. Compro il Mattino quando
il cielo non l'ha ancora annunciato. Ho appuntamento da mia sorella,
non lo apro, il giornale, lo aprirò dopo, devo sedermi,
il sole picchia impietoso ma io sto ancora dormendo, cammino come
un robot, non riesco ad avanzare il passo, la casa di mia sorella
è grande, c'è l'ombra. Mi squilla il cellulare.
Quando vieni?
Sto venendo, devo dirti una cosa.
Sì, sì, vieni che qua ci siamo già tutti.
Un compleanno e la famiglia si riunisce in festa.
Arrivo e vorrei piangere, ma non lo faccio; sono un ghiacciolo
sudato. Do la notizia. Mia sorella dice che a Napoli servirebbero
i corsi yoga, continuano tutti insieme a parlare di questa grande
idea mentre si danno da fare in cucina. Forse nessuno ha sentito.
Sul tavolo non ancora apparecchiato stendo il giornale. C'è
la sua foto, sopra. Mi fissa come quando scendevo le scale. Lo
stesso sguardo. Mi fissa con il suo viso ancora tondo, la pelle
morbida che odora di giochi, il corpo a un passo dal diventare
adulto. Ha gli occhi verdi, attenti, mi fissa dalla sua foto scattata
qualche mese fa. E' lui! E' lui, è lui, continuo a ripeterlo,
non so quante volte, e mio padre si gira, è il festeggiato,
mi guarda con rancore, è un po' dispiaciuto. Lo guardo.
Si gira di spalle.
E' lui.
Torno a casa col fiato in gola e la voglia di esserci.
Quando arrivo nel vicolo il mio corpo è troppo grande,
nella casa che non ha più i muri il silenzio è uno
specchio imbarazzante.
Come carta velina, il silenzio, solo un passo e lo taglio.
I ragazzi sono seduti sulle scale, come prima. Solo che stanno
zitti, lui non c'è.
Le ragazze hanno il giornale in mano. Due di loro si mettono nella
posizione di fianco per far vedere alle altre com'è successo
che il coltello è entrato, di striscio, ma è entrato
dentro.
Salgo le scale, ma non lo taglio, il silenzio, mi assorbe come
ovatta.
Da casa mia posso sentire i respiri che si affollano senza toccarsi,
giù al vicolo.
Passano i giorni ma il silenzio non passa.
Arriva la sera e io sguscio via.
In basso al vicolo, giù, in fondo, fuori alla strada, c'è
come una luce. Il muro dell'orto botanico è dipinto di
bianco, una pergamena di tufo bianco sbandiera una scritta azzurra. Abbiamo sognato che camminavamo insieme in riva al mare, ad
un tratto mancava un'orma sulla sabbia e guardando intorno ci
siamo accorti che tu non c'eri, ma ascoltando il vento si scorgeva
la tua voce tra gli angeli del cielo.
Guardo la scritta, il muro, sembra un uccello azzurro che vola
in un cielo bianco.
Il silenzio ha due torce che gli fanno compagnia, ai suoi piedi.
Il conciliabolo è sceso giù al vicolo, si è
fermato alle prime scale. I ragazzi hanno tutti un pennarello
in mano. Stanno zitti, stanno insieme. Qualcuno ogni tanto si
gira, si volta verso il muro, e scrive. Qualcuno chiede al compagno
a fianco come si scrive. Non c'è abbastanza muro per scriverci
sopra.
La folla di bambinoni in fila stretti tra le mura dell'orto botanico
e l'imbocco del vicolo grida l'ultima volta il suo nome, a ripetizione
lo chiama, proprio di fronte al muro pitturato di bianco e la
scritta azzurra, tutti i bambinoni in fila con la bara e il dolore
sulle spalle chiamano l'amico andato, non come una litania, ma
come una protesta, urlano e chiamano, come se pure della preghiera
non sia rimasta che la protesta, rivolta in alto, chissà
a chi. Eppure sono loro con queste urla, ancora, a inneggiare
il coraggio di una banda o un semplice gioco che ha condotto all'incidente,
la rissa, la morte.
Un ragazzo mi fissa come per indagare con i suoi occhi scuri cosa
sono scesa a fare, mentre io piango l'assurdo. Salgo come una
ladra. C'è chi è nato qui e non può più
salirle queste scale, mi dicono i silenzi dalle case, gli sguardi.
Un vecchio calvo e ossuto ha falciato l'erba dai gradini, è
sceso con una paletta di quelle che si usano per intonacare i
muri e l'ha falciata tutta, l'erba. Ha detto che non si fidava
più di sentirne la puzza, perché la notte ha piovuto
e l'odore di terra e di erba bagnata saliva per tutto il vicolo.
Le scale sono una enorme testa rapata di matta. Nessun odore,
più. |