Alle
sette precise ogni mattina mi sveglio, tutto appiccicato all'ultimo
sogno, sudato, sono grasso e si vede, peso più di un
quintale, una corda robusta e venosa mi lega al materasso.
Non posso muovermi. C'è un fagotto attorcigliato tra
le pieghe delle lenzuola, una corda contorsionista rosa vergogna:
è il mio pacco. La mattina ogni giorno mi sveglio con
lo sguardo rivolto al mio pacco: un contorsionista tutto rosa,
con la testa viola nascosta fra le braccia, lo cerco, e prima
ancora che il mio sguardo possa distinguere il pene dai coglioni,
volto la testa.
Mi chiamo Uboldo Spizzichino e sono qui perché ho bisogno;
non sono ancora guarito.
Dottore, lei è come un padre per me, in questa casa
con le pareti di vetro, opache solo per noi ragazzi, lei guarda
noi che ignari di tutto giochiamo. Nessuno si perde, nella
stanza dei ragazzi. Sono contento di stare qui, ma.
Ogni mattina ho bisogno di latte, vado a prendere la mia tazza,
questa che ho in mano, ma ogni volta la tazza è bianca,
come la ceramica di una vasca da bagno.
Bevo l'acqua e mando giù la compressa, bianca.
La casa mia era grigia, c'era lei: la madre mia.
La madre mia si metteva di spalle alla porta, e senza neanche
sedersi guardava la tele, tutta piena di profeti che le raccontavano
di quanto è cattivo il mondo e della sua fine. Per
via della fine del mondo, o forse solo della mia sorellina,
nessuno ci voleva parlare con la madre mia, che si metteva
fuori al cortile ogni mattina alle sette e urlava: Concettina,
Concettina.
Nessuno lo sapeva, ancora, dov'era la mia sorellina, ma la
sentivano tutti, nel cortile, la madre mia che urlava alle
finestre chiuse.
Io me ne stavo dentro. Sempre. Per quindici anni. Facevo le
corde. Due molle che tenevo inchiodate al muro, due maniglie
che penzolavano sopra la mia brandina. Le corde a molla, quanto
mi piaceva tirarle. Facevo le corde ogni volta che mi veniva
la voglia del latte. Così stavo bene e potevo pensare
alla mia povera sorellina morta, senza pensieri cattivi. Dopo
che mi ero fatto tutto rosso per lo sforzo mi guardavo allo
specchietto. Sto bene qui, dottore. Mi manca la mia sorellina.
Avevo dieci anni quando è successo. È stata
una carezza! Una carezza con delle intenzioni. Quali, non
lo so ancora, devo cercarle. Dottore, io sto bene qui, ma
sto tanto male, a volte mi sento stanco, pure adesso, mi può
cambiare lo Zyprexa?
Qualche volta, sento le voci. Mi appare la madre mia che mi
chiama, nella mia testa, nome e cognome. Non dice niente,
mi chiama soltanto. È arrabbiata, come se mi volesse
svegliare. Peso troppo, dottore, non sarà lo Zyprexa?
Non mi vedo neanche le palle!
Avevo dieci anni. Dopo che il babbo se ne era andato la mia
sorellina si era attaccata a me, io le facevo da padre. Quella
mattina erano le sette, le ho fatto la befana, mi sono imbacuccato
di scialli, ho preso il bastone, il carbone. La madre mia
era tanto orgogliosa di me.
La mia sorellina era nuda, voleva farmi vedere i seni, le
erano cresciuti appena, la madre mia non ci vedeva, stavamo
distesi nel letto, io ho preso le tazze, la sua era verde,
la mia era marrone, c'era scritto buongiorno. C'ero io con
la sua tazza, le ho messo anche due panzarotti dentro, appena
cotti, poi le ho messo una mano sopra, sul seno. È
una ciotola al contrario, le ho detto così.
Ha visto tutto, la madre mia.
C'è stata un'ora sana, con le mani sul collo come se
stesse impastando, è stato lento, ma stringeva, la
madre mia, e nel frattempo mi chiedeva di carezzarle la testa,
lo ha fatto piano, lo ha visto fare alla tele, da un branco
di cani, il cucciolo si era infettato, i cani hanno leccato
la ferita per disinfettarsi, perciò mi chiedeva di
carezzarle la testa. Non l'ho guardata negli occhi mentre
moriva, però mi sento ancora il suo sguardo appiccicato
al collo. Mi viene voglia di latte.
A causa dello sfratto ci hanno scoperti, sono venuti con la
bara, erano tutti convinti di trovarla nel muro, la sorellina,
ma non l'hanno trovata. Venduta, hanno detto. Io ero magro
magro, bianco, un bel ragazzo, portavo le maniche arrotolate
per via dei muscoli, per farli respirare. Sono uscito dietro
la bara vuota. Il sole era una coperta. Guardavo diritto davanti
a me per non incrociare i vicini, che ripetevano: "Venduta,
venduta".
Io ero un ragazzo di venticinque anni. Mi sembrava di vedere
il cortile per la prima volta, senza la mia sorellina. Sono
uscito e mi sono accorto che vivevamo tutti dentro un convento.
Lo sa come è fatto un convento? Una serie di case in
fila curva, basse. Tutte quante avevano un cortiletto, tranne
la mia.
La mia era fuori da quel mezzo cerchio, era senza cortile,
se la vede la luna quando è mezza? La casa mia stava
di fronte le altre, al centro del raggio. I vicini non mi
conoscevano da quindici anni, quando sono uscito mi guardavano
diritto sul collo, ero un bel ragazzo, magro magro, bianco.
L'uscita vera per il cortile e tutti i cortiletti era un grosso
portone di legno, marrone scuro. Fuori c'era una fontana a
secco, una macchia di ruggine la sua vasca.
Quando eravamo dentro, la madre mia apriva solo la metà
della porta di sopra e si affacciava. Teneva gli scialli sul
bordo per appoggiarsi alla sua mezza porta.
Adesso, adesso la casa mia adesso tiene una porta di ferro,
tutta intera, tiene anche una finestra che dà sul retro,
la nostra casa adesso è tutta dipinta di rosa. Inutile
che torniamo, me lo ha mandato a dire la madre mia. Dice che
è troppo tardi per tornare indietro, dice che tra i
giornali vecchi che stavano sulla parete hanno trovato Platini,
lo hanno buttato.
Sono grasso, dottore, una palla di grasso, come dice lei,
forse per questo sento le voci della madre che mi chiama,
urla il mio nome e cognome senza strascichi, è tutta
arrabbiata, spaventata, che posso farci? Non voglio dirlo
il mio nome, dottore, tanto meno il cognome, voglio restare
anonimo.
Tengo la tazza con le mani aperte, bianca, senza colore, ceramica
grassa, come sono io adesso, bevo?
Sto bene qui dottore, forse devo restare qui una vita intera.
A volte però penso che la madre mia forse mi starà
cercando dalla galera. Non sono guarito, no. Lei è
come un padre per me, dottore, vorrei tanto abbracciarla,
lo faccio?
No! Mi è scappata!
Non l'ho fatto apposta.
Non ho altro che lei, dottore.
Che dirvi? Che lo Zyprexa mi ingrassa, e poi mi stende. Non
voglio stendermi.
Voglio essere felice anche io, come lei, dottore. Chi è
felice non ha più colpa. Però vedo che vi imbarazza
il mio sguardo.
Lei non è felice, dottore, lo vedo da come teme il
mio sguardo, lei è colpevole, lo vedo da come mi scaccia,
adesso. Abbi cura di te, dottore.
I
vicini devono essersi accorti che vivevamo tutti dentro un
convento, perché poi hanno sostituito il portone di
legno con uno in ferro, subito, hanno messo anche il citofono,
appena due mesi dopo che siamo andati via. Mi sono informato,
non sono più una palla di grasso, dottore. Ho visto
la nostra casa e sono entrato; adesso è una casa vera,
che non tiene più i giornali per l'umidità alle
pareti, ma sta con tanto di intonaco e soffitto.
C'è la finestra qui dietro la cucina. L'aria non si
prende più dalla porta, ma io sto bene affacciato alla
mia mezza porta. Privato dello Zyprexa il mio corpo è
tornato al suo peso forma, normale. Mi chiamo Uboldo, senza
cognome. Non sono più bianco, sono marrone, marrone
chiaro. Non sento più la voce della madre mia che mi
chiama. Ho i capelli neri. Come gli occhi della madre mia
defunta. Addio dottore, ognuno ha la sua pelle, ognuno l'odore
che ha scelto.
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