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Centro sociale Achab

Questi quattro amici miei e io ce ne stavamo andando al Centro di Progresso della Cultura e della Lettura. Non so bene perché. 25 euro per sentire parlare di libri e vederne qualcuno, asciutto asciutto. O solo per una buona cena.
I miei quattro amici e io ci seguiamo l’un l’altro, attirati dall’odore della polvere che ancora portiamo addosso. Non so bene chi abbia cominciato la traversata sulla piattaforma, stasera. Basta che uno di noi sia colto da un fiuto di buona gente e buon cibo, parta spedito, gli altri seguono. Andavamo e ci aspettava una cena coi fiocchi. Ecco il vero motivo delle 25 euro. Una cena elegante. Ma c’era da camminare molto e pure se nessuno di noi avrebbe dovuto prendere un remo in mano - del mare neanche l’ombra - pure se ci saremmo arrivati belli asciutti, 25 euro! Eh, una spesa che ci avrebbe lasciato senza fiato. Così, prima di svoltare l’angolo che porta all’unica piazza vera con un Centro vero, ci siamo tuffati. Sì. Non è molto lontano l’altro, il Centro Achab.
Il centro Achab è un vascello, rifugio per un’accozzaglia di disperati che non hanno posto sulle piattaforme, neanche ne hanno mai vista una, vengono dritti dal mare, da uno dei tanti pezzi di barca alla deriva. Tutti questi senza tetto vagano un giorno intero sotto a un cielo senza svolte e senza indicazioni per ritrovarsi la sera da Achab. A stare insieme. Asciugarsi. Mangiare.
Fatto sta che una cena da Achab costa al massimo 10 euro, per chi ce le ha. Per questo poi ci siamo diretti lì; solo cinque minuti di nuoto dalla piattaforma Sud. Per andare invece al Centro di Progresso della Cultura e della Lettura c’era da addentrarsi dentro una svolta e poi l’altra fino ad arrivare alla piattaforma dell’estremo Nord Est, sempre che a qualcuno non veniva la voglia di buttarci a mare. Così ci siamo tuffati. La sera ancora accaldata dal sole di tutto un giorno e il volto di Achab in persona ci avrebbero presto asciugati.
Appena saliti dall’entrata sulla prua del suo bel vascello, eccolo lì, dietro la scrivania tutto intento ad esultare per la serata a venire, controbilanciare le sfere che stasera daranno ottimi risultati. Le sfere di orientamento spaziale ci dicono in quale parte della terra ci troviamo - della terra è un eufemismo perché di terra non è rimasto niente, tutta mangiata dal mare – le sfere le muove la luna.
Achab è a suo agio dentro questo vascello protetto, salvato da un viaggio di mare nel momento giusto e nel posto giusto. Sta progettando gli entusiasmi della serata mentre contiene il suo. Occhi celesti, capelli ricci sulla testa dalla fronte ampia, un viso che due grosse basette, anche quelle ricce e bianche, rendono tondo. Il resto è una barba sfatta, tagliuzzata alla meglio. Dorso nudo e pantaloncini di un colore ormai indefinibile.
Achab nel suo entusiasmo contento, nella sua gioia per il momento a venire, su quel vascello rifugio dei senza tetto, è sempre bello tondo e lucente, quanto la luna, anche lei così piena, stasera. Il vascello non si allontana mai troppo dalla piattaforma, così lo abbiamo raggiunto in men che non si dica. Ci vuole un certo bene, Achab, a noi quattro. Siamo la via di mezzo tra i possidenti di tutta la finta terra rimasta a galleggiare e la massa dei senza tetto, una via di mezzo disposta a leccare il culo a chi di dovere, quando è necessario. Lui non li chiama così, i senza tetto, sono abitanti del mare, dice. È l’unico a pronunciare la parola mare senza farsi venire il voltastomaco. Dice che un giorno sarà proprio una corrente marina a guidarlo verso un altrove, come se il mare potesse diventare trampolino di lancio verso uno spazio che ti risucchia dritto dritto sul pianeta della salvezza. Dice che allora guiderà tutti i suoi senza tetto verso un pianeta dove la terra non conosce bombe atomiche ma solo energia pulita.
Non ci rimane molto tempo, solo un mese o due, poi ogni riserva finirà e i soldi che girano e girano saranno più inutili di questi senza tetto alla deriva.
Entriamo, scotoliamo i nostri panni e ci mettiamo a guardare l’andirivieni dei suoi amici, collaboratori, tutti presi dai preparativi per il grande salto, come convinti che questa serata non saremo solo qui a guardare su un grande maxischermo il viaggio da fare. Stasera pare che il viaggio sia vero, a venire; ci porterà sul pianeta Altrove.
Altrove è nei pressi, dice Achab. I suoi amici dispongono sedie, tirano fuori bevande. Qualcuno dei diseredati è già qui. Un uomo consunto e senza denti sta di fianco ad Achab, che ce lo presenta, ha un sacco di storie da raccontare, dice, e io davanti a quest’uomo sdentato mi accorgo di quanto il pregiudizio, cristallizzato dal sano egoismo, mi abbia già mangiato l’anima; non riesco a vederlo se non come un poveraccio, un assistito.
Sono venuto solo per mangiare, penso, oppure, mi chiedo, per una serata al bar come ai vecchi tempi? Per ascoltare le sconcerie di un ubriaco o per produrne di mie?
Miseria. Perché sono qui? Sono venuto per fissare lo sguardo sul volto di Achab e farmi sussurrare le stesse storie che mi racconterebbe la luna, se la volessi ancora guardare, ascoltare? Per afferrare a piene mani l’assurda spensieratezza di una serata sopra un pianeta che volge a finire? Per un piatto di cibo che non mi costi una fortuna? O solo per credere ancora a una buona sorte?
Il diseredato che mi sta davanti si chiama Job, job come lavoro. Era un contadino. Fra i contadini è l’unico sopravvissuto. Il suo viso paffuto sorride. Tutto avvolto dalla fratellanza con Achab e il resto degli altri. Mi racconta del suo lavoro come fosse cosa di oggi. Due guance rosse. Pelato. Gonfio come uno che ha bevuto tanto. La sua fiducia è tutta umana, però, non ha niente di alcolico. Eppure io riesco a farmelo piacere solo se lo vedo come un ubriaco al bar. Anelo un goccio. Gli altri ospiti della sera sono ancora in mare, arriveranno. Devo solo aspettare. O non sarebbe meglio vivere? Comunicare.
Guardo i miei quattro amici. Allo stesso modo ci sentiamo; spersi.

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