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L'Ancora

Ecco qua. M’hanno gettato. M’avessero lanciato, come si fa con lo sparviero, beato lui, addestrato alla confidenza con le montagne dirimpetto, maestro del volo esponenziale, una guida che i turisti possono solo inseguire con lo sguardo, il cuore spalancato alla meraviglia che non ha pudore. Ma, no. Nuda, nell’aria umida, m’hanno gettato e non c’è nessuno che segua con incanto il mio volo. M’hanno gettato e splash. Neanche il tempo di fingermi sparviero. Il mio volo s’è annegato.
Stavo bene, prima? Consultata appena da occhiate fuggitive dei corpi tutti presi a gocciolare sulla tovaglia i loro liquidi, io in realtà parlavo: con l’albero maestro, con i pensieri del timoniere, con la scia dei gabbiani, con le vele battute da un vento irregolare, con i gesti spensierati dei mozzi.
M’hanno gettato perché è così, il deus ex machina ha suonato la campana e la mano che mi ha afferrato mi ha fatto un discorso sull’obbedienza: quando suona la campana vuol dire che l’ora è perfetta, che tutto è concorde ed anche per me, non potrebbe esserci un momento migliore di questo, per inabissarmi. L’ora perfetta non è una data che si possa rinviare.
Glu glu glu, le bollicine che mando su hanno tutta l’aria di un dispetto ma sono l’ultimo segno di una rimembranza. Qui non c’è aria. Non si fanno discorsi eppure tutto mi parla. Si accorgono della mia presenza le flotte di pesciolini che si scansano e si girano a guardarmi, le alghe giù nel fondo che mi aspettano, la luce che mi abbraccia e cambia di colore ogni secondo, fino a diventare blu.
Gli scogli in mezzo a cui mi sono infilata non si sono scomposti più di tanto, mi hanno accolta, come se mi conoscessero da sempre. Una folla festosa si aduna intorno a me, danza. Tutto mi appartiene. Stavo bene prima? Non lo so, ma solo ora riesco a sentire il mio corpo e la fune cui sono legata non mi sembra più una catena minacciosa; fa parte della mia aurea, dice la mia storia a tutti qui, dove non esiste la parola e tutti mi capiscono.
Gli scogli mi raccontano la solitudine andata. Dice che prima del mio arrivo qui nel fondo non c’era mai stata tanta folla: qualche granchio, una stella poco vanitosa, qualche mamma esausta che aveva lasciato i suoi piccoli a giocare, su, e un vecchio pesce brofonchione che non teneva nessuna voglia di fare salti sull’acqua. Niente più. Dice che io sono il segno di un pericolo e al tempo stesso la tana verso cui rifugiarsi, dice che finché non mi tireranno su la mia corda sarà il sentiero di fuga di tutti quei pesciolini lasciati liberi di giocare e ora messi in pericolo da una rete. Grandi venuti da lontano, piccoli in fuga dalla superficie, si radunano tutti qui e insieme facciamo una grande comune, ma la verità è che nessuno ha voglia che io rimanga per sempre. Aspettano il segnale di cessato pericolo che può venire solo da me, dalla mia risalita.
Non sono triste per la mia sorte, non ce l’ho con la mia fune. La luce blu è un’enorme culla e mi dice che tutto va bene. Deve parlare anche agli altri nella stessa maniera, questa grande mamma blu, perché, nonostante l’attesa, nessuno ce l’ha con me.
Resterei qui per sempre, ho pensato, è stato un attimo e il pesce brofonchione quasi si andava a suicidare in corsa verso la rete, gli scogli hanno cominciato a tremare, i pesciolini che facevano girotondo hanno preso direzioni scomposte andando ad urtare uno contro l’altro, la stella marina, sempre così giovane e bella, stava per invecchiare di colpo, alle mamme è bastata un’occhiata diretta al pescespada e quello stava per mettersi a scavare il terreno sotto di me quando è intervenuta la fune a parlarmi.
Dice che io sono viva. Che tutto è vivo. A patto che io la segua, lei, la mia sorte. A patto che ognuno segua la sua sorte. Dico che non voglio. La fune mi strattona e la terra sotto di me si alza e fa una nuvola marrone e i pesciolini intonano un canto, tutti ballano, la stella si è messa a ondulare le braccia, perfino il pesce brofonchione si è schiodato e ora si mette a fare le piroette. Vedi? Dice la fune, dice che niente è mai fermo e la morte non esiste. Dice che se io restassi qui invece tutto finirebbe. Ma io voglio restare con la luce blu e la fune che mi strattona la sta imbrattando di marrone e mentre salgo la luce ritorna, blu come da quando son qui, e mi abbraccia e dice che anche lei, la luce blu, svanirebbe in un nulla impossibile e tremendo, se io tagliassi la mia fune e decidessi di restare.
Salgo e man mano che mi allontano dal fondo e ritorno alla superfice la luce si tinge di celeste, bianco. Sta passando al sole il compito di abbracciarmi. E allora alzo la testa e in fondo sono contenta di non essere morta e guardo lo specchio del sole che già ha rischiarato tutte le acque e prima di emergere gli dico che da oggi conosco il suo segreto, la sua sposa, la mano che si dà con la luce blu.
Manca poco al ritorno, sarà la vita di prima o una diversa? I raggi del sole già invadono le acque e salgo verso l’oblio ma prima ancora di guardarlo in faccia gli parlo, al sole, gli dico: non ti credere che mi dimentico della luce blu, sono sicura che resterà una culla, dentro di me, e quando mi stancherò di stare posata sotto il cerchio del tuo raggio, mi alzerò e mi metterò a dondolare, così rientrerò, giusto dentro di lei, la luce blu.
Il sole mi tira fuori dall’acqua con le sue mani forti e dice: sei simpatica tu, tale e quale alla luna. Eh già, la luna; abbagliata dalla luce del ritorno mi ero scordata che esiste anche lei, la notte.

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