palummella.com
Recensioni
Racconti
filmati flash
Cronache
I maestri
Autosufficienza

L'ospite inatteso

Alla fine di questo film provo il gusto di domandarmi chi sia l’ospite inatteso.
Ospite inatteso, o Visitor, da paura come il Fantasma dell’Opera è Walter, di ritorno alla sua casa di New York o in fuga dalla sua vita tranquilla circondato dal verde di una cittadina del Conneticut. Walter è ospite per Tarek e Zainab, una coppia di “immigrati irregolari”, che bensì conduce una vita molto più felice e integrata di lui. Ospiti inattesi sono Tarek e Zainab prima, Mouna poi, per Walter.
Ma ospiti inattese sono anche le cose, come le sedie che nella prima scena appaiono sfocate.
Ospiti inattesi sono soprattutto gli eventi, come quell’undici settembre che è venuto a cambiare le regole del gioco, a rendere il sospetto di terrorismo una buona scusa per la repressione, l’emarginazione, l’esclusione sociale, ospiti inattese sono le leggi che levano il diritto per sancire la criminalizzazione di quegli stranieri che non hanno appoggi, soldi.
L’ospite inatteso è un bicchiere che si può vedere mezzo pieno ma anche mezzo vuoto. Grazie anche al montaggio, il film si bilancia fra una leggerezza vitale, una leggera ironia, e una rabbia che è un grido, un richiamo rabbioso quanto insperato alla giustizia che non c’è. Non è giusto e non c’è niente che possiamo fare. Come il montaggio, così la scenografia mette in risalto questo scarto, fra il grigio dei panorami e i colori vivi dei primi piani. Un film che inizia dallo spunto di un mestiere, quello di Walter, docente di economia, ricercatore nella branca della cooperazione allo sviluppo, e di qui giunge a quella globalizzazione che costringe il terzo mondo ad accoglierne i suoi frutti. Un film sulla globalizzazione ma anche sulla sua opposizione, la glocalizzazione.
Di dove sei? Chiede una autoctona molto turista e piuttosto straniera, alla straniera irregolare Zainab, dietro la bancarella di braccialetti e bigiotteria fatta a mano. Del Sud Africa. Ah, Città del Capo, ci sono stata l’anno scorso. Quanto dista Città del Capo da casa tua? Lo chiede il compagno di bancarella israeliano a Zainab. Circa ottomila chilometri.
Il bene globalizzato non ha il senso delle proporzioni. Come non ha senso la vita di Walter. La differenza è che lui lo sa. È con rancore ostinato che continua la sua formazione senza talento, sulla scia della passione di una persona che non è lui, ma era sua moglie, una donna bellissima. Potrebbe generosamente vendere il piano all’insegnante che glielo chiede, leggere un compito in ritardo, stilare un programma per i suoi allievi. Non l’ha fatto e lo sa. Lo sguardo da “non va” della sua insegnante di piano ha un che di timoroso, il timore di chi riconosce l’ingenerosità ma non trova un appiglio per scalfire un muro di incomunicabilità. Walter chiude la porta con un addio, e in questo primo addio che appare nel film se ne intravedono altri quattro, fuori scena. L’insegnante respinta lo sa, quattro insegnanti prima di lei hanno ricevuto questo addio, e attraverso le dita di Walter che non si inarcano non passa alcun treno. Le parole di questa insegnante sono rivelatrici. E l’effetto di questa rivelazione per me spettatrice è stata una grossa risata.
Una vita alla ricerca di un’arte deceduta, quella di sua moglie. Il suo libro da scrivere, scusa su cui concentrarsi, è una pagina bianca. La verità Walter la conosce dal principio. Non è preparato. Ma non può presentarsi al mondo con questa verità. Il suo primo gesto di generosità gli apre la strada, e avviene come una costrizione.
Il suo appartamento in disuso non appartiene a lui, così dicono gli intrusi che inconsapevolmente hanno occupato una proprietà altrui, imbrogliati in un fitto senza contratto. La sua imperturbabilità nel guardare le scene di uno sfratto non lascia trapelare alcuna viva curiosità. Prende in mano un oggetto di vita vissuta, così diverso dalla sua vita in disuso.
Il montaggio non lascia trapelare la generosità con cui decide di ospitare i visitors, perché la sua non è ancora generosità, ma senso di attrazione. Ancora non ha niente di suo in mano e le persone gli si allontanano un po’ spaventate. La prima persona che gli si dimostra affabile, un suo antico vicino newyorkese, lo è solo in ricordo di sua moglie, donna stupenda.
La relazione di uno scritto non suo che deve tenere è sul terzo mondo che deve raccogliere i frutti della globalizzazione, frutti non suoi. Anche il terzo mondo, che ha frutti suoi, dovrebbe raccogliere qualcosa di non suo?
Il primo ritmo che lo cattura, suonato da rappresentanti del terzo mondo, usa scarti del mondo occidentale, cassonetti di veleno, vuoti e rivoltati.
La seconda persona che gli si dimostra affabile è Tarek, non appena riceve il permesso di continuare a provare, che più di un permesso si manifesta già quasi come una sottile confessione, di interesse.
Non vediamo nemmeno i suoi pensieri mentre decide ritornare sui suoi passi e accettare l’invito alla serata di Tarek, che suona in un gruppo jazz.
Dopo, tutto cambia. Una scena lo vede confuso con gli altri seduti sul muretto ad ascoltare la musica di strada. I suoi vestiti però hanno sempre il cartellino della conferenza addosso.
Sarà Tarek, in un terzo atto, finita la conferenza e la farsa, a suggerirgli di levarlo.
La lezione di musica che Tarek gli offre è la lezione di vita che gli ci voleva.
Tieni i piedi bene per terra. So che sei un uomo molto intelligente ma col tamburo devi ricordarti di non pensare; pensare incasina tutto, chiaro? Chiaro.
Hai pensato? No. Bene.
Dimentica la musica classica, lasciala perdere.
Il djambé ha tempi diversi, tre, non quattro.
La sua faccia che suona si trasforma senza badare più ad apparire, nonostante il cartellino ancora addosso.
Il terzo atto, terminata la conferenza da tenere, inizia con un tuffo nella glocalizzazione. Cibo siriano, musica afrobeat. I braccialetti fatti a mano che Zainab crea e vende.
I primi colori vivi, nel parco a suonare. Una vera festa. Lo djambé è uno strumento che vuole compagnia. Non può suonare solo. Il senso di appartenenza, l’insieme e lo stare dentro che ritrova Walter, il sorriso, è qualcosa che accade e non ci si chiede come è accaduto.
Ma il mondo globale non è cambiato. Le torri di New York stonano con il verde del prato.
Il mondo artificiale della metro e dei suoi passaggi, lo strumento di uno straniero che suona solo e indisturbato, chissà da chi protetto, viene da domandarsi. La leggerezza con cui Tarek sorride e scavalca il tornello inceppato dopo aver passato la tessera, stona con il mondo globale, del sospetto e dell’espulsione. L’ospite inatteso è il poliziotto che lo ferma, per un nulla.
Tarek sa già come va questo mondo, suo padre ne ha fatto le spese, ma la sua vita ha, o meglio, aveva preso la decisione della leggerezza, del sorriso vitale. Zainab invece è ferma sul suo sospetto sulle sue paure sulle sue preoccupazioni sulle sue diffidenze. Non abbiamo la cittadinanza, e quando lo scopriranno…. È così che funziona, rendere criminale uno straniero solo non concedendogli un diritto. Zainab si scioglierà in un sorriso solo quando vedrà apparire la madre di Tarek.
Walter è coinvolto, nel sorriso come nell’opposizione all’ingiustizia. Ma ancora crede di poterci fare qualcosa.
La vita è una prigione, lo rivelano le inquadrature ai vetri che dal principio di questo film hanno in sé il disegno di una grata. E la prigione, vista da fuori, non sembra una prigione. È voluto. Walter è perfettamente consapevole di tutto il sistema che tiene in piedi il non senso. Solo che ora si butta a capofitto, dall’altra parte.
Passa attraverso quello stretto cunicolo, sotto quella sorveglianza senza uscita, e guarda avanti sicuro che troverà una soluzione.
La lettera scritta per Tarek da Zainab che Walter come un piccione viaggiatore fra mille ostacoli burocratici non può offrire al suo amico. La leggerezza di Tarek resiste, poggiala sul vetro, è permesso.
Il non senso di un bene globalizzato che non ha percezione continua, nel cartellone buonista e autoreferenziale: La forza dell’America, gli immigrati.
La leggerezza di Tarek resiste, fammi sentire a che punto sei, e i due amici si ritrovano a suonare insieme, la leggerezza combatte il vetro separatorio della prigione, Tarek batte il ritmo sul petto, Walter sul banco; ne ha fatti di progressi. Walter e Mouna condividono un senso di colpa ingiusto per quel che è successo a Tarek. Walter, perché era con lui, Mouna, la madre, perché ha buttato il foglio di via senza dire niente a nessuno. Ma la colpa non è lì, è nella storia fatta di leggi, poteri, soldi, tutta lì sul giornale, che Walter riceve in un dolce baratto da Mouna, in cambio dell’ospitalità. Grazie del giornale, vuol dire di più che questa fila di carte, grazie per avermi fatto entrare. Non sanno risolvere i loro sensi di colpa, perché sia Walter che Mouna, in qualche cosa, mentono a metà.
La glocalizzazione insieme alla leggerezza felice resiste, ora grazie alla madre di Tarek, Mouna.
Una donna nera, quella è Zainab, è molto nera.
Ti manca la Siria? Mi manca Damasco, gli odori.
Anche Zainab mente a metà, quando deve spiegare come conoscono Walter. Mouna le sorride, sa, e prova tenerezza per quel mentire a metà che anche lei conosce.
La leggerezza resiste. Vorrei che mi facessi vedere qualcosa che a te e a Tarek piaceva fare e dove vi piaceva andare.
Posti da guardare da lontano, Ellis Island, arrivare alla riva e tornare indietro. Era gratis e ci dava la sensazione di andare in un posto.
La leggerezza di Tarek non resiste, le descrizioni si fanno dettagliate, una sola stanza senza soffitto, e la storia di suo padre, per un articolo che gli hanno pubblicato.
Mouna vuole scalfire le menzogne a metà di Walter. Il suo libro, argomento ampio difficile da spiegare, non è facile parlare del mio lavoro con qualcuno che non scrive. Lo sa. Che mente a metà, e per questo ogni risposta offende.
Torna al suo ruolo senza senso. Fuori la sua aula c’è verde, ma sul desktop del suo pc c’è il deserto. Lo sconfigge con il cd di Tarek, suonando il djambè.
Finalmente vende il suo pianoforte. Felicità si prova davanti alla sua imperturbabilità e la soddisfazione della sua vecchia insegnante.
Torna da Mouna. Ha cambiato gli occhiali e tolto la cravatta.
Un lampione sopra al carcere di sera, messo al posto della luna. La resistenza leggera di Tarek è finita, gli stranieri sono trasferiti, da un giorno all’altro, nessuno sa niente qui dentro, tutto questo non è giusto, io non sono un delinquente, non ho commesso nessun crimine, che cosa credono, che sia un terrorista? I terroristi non ci sono qui dentro, loro hanno soldi, hanno appoggi. Lo so. Tu che ne sai? tu sei fuori di qui. E anche questa verità, arriva come un’offesa, perché la verità è piena di rabbia.
Voglio vivere la mia vita suonare la mia musica, che cosa c’è di male in questo?
Arriva il momento per Mouna di vedere il Fantasma dell’Opera. Walter è contento di farle vedere le luci belle della città, contento di vederla amare queste luci di New York.
Il Majestic e la maschera di un fantasma. C’è da sorridere di questa paura.
Mouna racconta di Malula, una specie di gigantesco teatro all’aperto. E insiste a puntellare il silenzio di Walter. Non sei tenuto a farlo. Questo non è un problema tuo.
Arriva il momento per Walter di togliere la maschera davanti a Mouna. Non ho altro.
Consegnata la vergognosa verità, Walter si scusa, sono desolato. Mouna invece lo ringrazia.
Che cosa faresti se non insegnassi.
Non lo so.
lo trovo eccitante non saperlo.
L’Ospite inatteso è l’ordine di allontanamento, il diniego di un diritto di asilo, è tutto questo che fa dire a Mouna: odio questa città. Ma è vero solo a metà.
Il poliziotto di ufficio non è tenuto a sapere dove vanno a finire i detenuti trasferiti.
Il numero sulla parete opposta perché le vittime si allontanino dallo sportello.
Tutto è ben calcolato nel sistema delle espulsioni.
Non è giusto. Voi non potete trattarci in questo modo. Aveva una sua vita.
Andiamo. Non possiamo fare più niente.
Le luci di un aeroplano si vedono grandi, nel panorama di città, gli uccelli si vedono appena, ma si sentono.
Prima dell’undici Settembre, tutti dicevano che, una lettera di via, al governo non importava. Dopo un anno te ne dimentichi, sei convinta che il tuo posto sia qui.
Mouna torna anche lei, in Siria, come espulsa. È un addio, ma non vorrebbe andare via.
La bandiera americana è sfocata. Ospiti inattesi sono gli Stati Uniti d’America.
Walter torna sul luogo underground, la metro dove con Tarek vide suonare qualcuno che poteva permettersi di non aver paura di essere preso e portato via. Perché non suoni qui, visto che si fanno tanti soldi? Una volta suoniamo insieme. Ora c’è lui, Walter, che, solo, ma come fosse in compagnia di tutto il suo terzo mondo, si prende il diritto di suonare, senza pensare.

Contatore visite gratuito © 2014 Design by Francesca Picone.